domenica, novembre 13, 2005

Storia della mia lingua

Ho trovato in rete a questo indirizzo un breve trattato sulla mia lingua, il marchigiano. Molte persone si meravigliano e ridono quando ci sentono parlare, in effetti è una lingua un po' buffa ma ha delle radici storiche. Forse ho sbagliato a dire una lingua, sono molteplici lingue profondamente diverse. Tra un Benigni (presidente dell'Ascoli calcio) e un Valentino Rossi c'è una differenza linguistica impressionante. Tra i gruppi citati mi pongo tra il secondo e terzo, le mie zone hanno ripreso molto da Fermo ma qualcosa anche da Camerino, e comunque parliamo,ahimè, con la u finale.




«Ste Marche inzomma è probio desgraziate: tanti paesi edè, tante parlate, che una coll’altra ’n ci ha a che fa a noelle, e tra tutte è ’na torre de Vavelle!».

Il poeta Felice Rampini di Ascoli Piceno esprime in questi versi dei primi anni del 1900 tutta la varietà dialettale delle Marche. Un solo dialetto marchigiano, in effetti, non esiste, ma per motivi storici e geografici ogni provincia ha il proprio, talvolta diverso anche nell’ambito dello stesso circondario. Poiché questa regione ha subìto una colonizzazione diversificata e a più riprese, la parlata locale ha seguito distinte linee di sviluppo dando vita ad un panorama linguistico ricco e multiforme.

Anche se per i linguisti le Marche appartengono al gruppo centro-meridionale/mediano, in realtà nella regione convivono, geograficamente disposti in un continuum, dialetti di tipo settentrionale, centrale (toscano, umbro, laziale) e meridionale-abruzzese tali da rappresentare in microcosmo la situazione intera dell’Italia peninsulare. Il territorio marchigiano viene di norma suddiviso in quattro aree:

- la provincia di Pesaro-Urbino, il nord e la parte costiera di Ancona, appartenenti al ceppo gallo-italico, con una lingua collegata al romagnolo;

- il resto della provincia di Ancona e Macerata (inclusa la zona del fermano), che costituiscono il centro dei dialetti marchigiani, strettamente connessi a quelli umbri, romani e toscani;

- la zona circostante Camerino, che conserva, invece, un tipo di dialetto più arcaico, in cui si mantiene la “-u” finale, senza confondersi con la “-o”, come in “lu monnu” (il mondo), dal latino “mundus”;

- infine, la provincia di Ascoli Piceno, in cui la parlata è stata influenzata dall’abruzzese.

Va inoltre sottolineato che nelle città di mare e nei porti, come Senigallia ed Ancona, si trovano alcune forme d’origine veneta.

I termini gallo-italici (primo gruppo) si distinguono per la presenza dei suoni “ü” e “ö”; per la caduta di alcune vocali, come in “stimana” per settimana, “pover” per povero, “pranz” per pranzo; dall’inversione (metatesi) della consonante tonica, come in “arpià” per ripigliare, “arcudà” per ricordare; dal cambiamento (lenizione) della consonante sorda, come in “segondu” per secondo, “diga” per dica, “figu” per fico e dall’alterazione di tutte le vocali doppie; infine, la lettera “z”, come nella Romagna, diventa “s”, così si dirà “passa” per piazza e “tassa” per tazza.

Nel secondo tipo di dialetto, data la sua ristrettezza, è difficile stabilire delle regole precise, ma abbiamo alcuni caratteri specifici, come il cambio di “i” in “e” e viceversa, tipo in vetro, al plurale “vitre”; nei verbi, come in mietere, che in seconda persona diviene “tu miete”; il cambio “uo” in “o”, per cui buono diventa “bono”. Un’altra particolarità è l’assimilazione delle lettere: caldo è “callo”, grande “granne”, quando “quanno”, ecc... Nelle iniziali in “g” si hanno inoltre delle variazioni, dunque gioventù diventa “gioentù” ad Ancona, ma a Macerata la parola giovanotti si trasforma in “gghioenotti”, con un rafforzamento del suono duro “g”.

Nel territorio intorno a Camerino, invece, il dialetto marchigiano si mantiene più puro, con la sua caratteristica finale in “u”. La coinè “dell’u finale” abbraccia la parte centrale e maggiore della regione, i cui limiti si possono determinare fra la valle dell’Aso a sud e quella dell’Esino al nord.

Questo dialetto, unico nei suoi caratteri fondamentali, tende ad attribuire una certa sonorità alle consonanti sorde, specie dopo le nasali “n” ed “m”: quindi “c”, “p” e “t” divengono quasi “g”, “b” e “d”.

Nella letteratura G. G. Belli si burlò di una tale pronuncia in un sonetto scherzoso intitolato “Sonetto pasdorale”. Tuttavia, se il romanesco di G. G. Belli fu anche terribile strumento di satirica politica, se il siciliano di G. Meli ed il sardo di S. Satta ebbero forme e movenze liriche, se Carlo Porta piegò da par suo il milanese persino a polemiche letterarie... il dialetto marchigiano, semplice, bonario ed eminentemente rurale, non poté trattare, per dirla con Alfonso Leopardi, che di «argomenti umili, piani e preferibilmente locali, senza nascondere le parole men che decenti, perché esse sono moltissima parte del linguaggio del volgo. Quindi, chi può sentirsene scandalizzato, arricci pure il naso e passi oltre!».

Per quel che riguarda il vocabolario, la situazione del marchigiano è piuttosto composita. Citiamo alcuni esempi: nella prima zona si ha “bagé” per maiale e “butrigò” per precipizio; ad Ancona si ha “impalichì” per appisolarsi e “strofu” per cencio; a Macerata, “curtina” è podere e “sarvai” è imbuto; ad Ascoli Piceno, “furia” vuol dire molto, “fracchia” fango e “rua”, dal francese “rue”, significa via.

Il professor Baiardi della facoltà di Lettere ad Urbino afferma che «il diffondersi dell’istruzione e del linguaggio comune dei media ha condotto al declino del dialetto». Esso è comunque ancora diffuso tra gli anziani e nelle campagne, dove però non è puro, ma “inquinato” dall’italiano. Parlato poco, il dialetto è invece sostenuto e valorizzato dagli artisti regionali. A partire dagli anni ’70, sono aumentati gli studi incentrati sulla lingua locale, a cominciare dall’istituzione della cattedra di Dialettologia, proprio in seno all’Università di Urbino (1969-1970).

Lo spirito dovrebbe essere quello di favorire l’autocoscienza linguistica. Lungi cioè dal cercare di stimolare mitici e impossibili ritorni alle origini, si auspica piuttosto di contribuire al formarsi di una più pronta, approfondita e diffusa capacità di percezione delle diversità, nel rapporto dialettico fra radicamento in una realtà territorialmente definita ed uso consapevole e adeguatamente padroneggiato del dialetto di ciascuno.

1 commento:

Anonimo ha detto...

complimenti per le tue precisazioni in merito! saluti da Urbino, Andrea